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“La primavera della lingua aziendale” o la rivoluzione delle parole al lavoro

Intervista – Alcune imprese impediscono l’utilizzo di certe parole. Altre invece ne inventano di nuove. Le parole descrivono un nuovo mondo del lavoro. Sophie Chassat, filosofa e fondatrice di un’agenzia di consulenza che si occupa di identità verbale, descrive a Figaro questa mutazione.
Nell’opera teatrale “Le bâtisseurs d’empire”, Boris Vian pone questa domanda esistenziale: “Mi chiedo se non sto giocando con le parole. E se le parole fossero fatte per questo?”. Sembra che oggi numerose imprese si pongono allo stesso tempo questa stessa domanda e cercano a tutti i costi di dare una risposta. Le imprese scrivono le proprie storie col loro personale linguaggio. La BBC riporta che negli Stati Uniti la piccola catena di ristoranti italiani Davio ha vietato l’utilizzo della parola “impiegato”. Perché? Perché si tratta di un termine “terribile” secondo Steve DiFilippo, proprietario di Davio, che definisce i suoi lavoratori come “inner guests”, ovvero come “invitati interni”. Astuto o ridicolo?
Allo stesso modo è possibile trovare degli esempi all’interno dei grandi gruppi. Il Wall Street Journal cita un rapporto che spiega che General Motors ha allenato i propri ingegneri affinché non utilizzino più alcune parole e espressioni “catastrofiche” come “errore”, “difettoso” o “tranello”...Da Apple i collaboratori dispongono anche di un piccolo glossario di parole da eliminare assolutamente ogni giorno: “bug”, “crash” o qualunque altro termine troppo pessimista deve quindi essere imperativamente attenuato da una parola più “leggera”. Ma la vera rivoluzione sono le parole che inondano il gergo interno, e specialmente i titoli di lavoro, sempre più creativi e strambi. Ninja, evangelista, guru, responsabile della felicità...Sophie Chassat, filosofa e fondatrice di un’agenzia di consulenza che si occupa di identità verbale, descrive a Figaro questa mutazione.
Quando è apparsa questa realtà di vietare alcune parole (e di promuoverne altre)?
In un certo modo, potrebbe essere la definizione stessa della pratica pubblicitaria, e quindi non si tratterebbe di un fenomeno recente! Vendere delle “calzature” invece che delle “scarpe”, ad esempio, questo si fa da sempre partendo dal presupposto della “consumazione dell’immateriale”: le persone non acquisterebbero dei prodotti, ma un universo, un’atmosfera, dei valori, delle storie. Allo stesso modo, dare un nuovo nome a un’invenzione può rivoluzionarne la percezione: la “stampante 3D” si chiamava all’inizio “stereolitografia”...Quello che è nuovo, è l’applicazione di questo paradigma all’interno, avendo come obiettivo principale gli attuali o futuri collaboratori! Secondo me, la vera rottura col passato si trova in questo.
La sfida di trovare le “proprie” parole è diventata capitale per un’impresa?
Assolutamente si. Non è così sorprendente che ciò si verifichi in un momento in cui la fine dell’attrattiva dei loro modelli e l’estrema volatilità dei talenti pongono delle nuove sfide alle imprese. La sfida di marca non è più soltanto esterna, ma è diventata anche interna: questa famosa “marca del datore di lavoro” che ossessiona tanto. È su questo che si concentrano i più grandi sforzi in materia di innovazione verbale e di scelta di tonalità spostata. I “dieci consigli per il colloquio” della marca Innocent ne rappresentano un buon esempio, e il video dell’impresa Enconocom offre inoltre a mille dei suoi collaboratori un viaggio in Patagonia entro il 2021...
A partire da quando le imprese scrivono così il loro proprio universo?
Direi che bisogna andare a cercare nella regione della Silicon Valley, negli anni 1990, agli albori dei GAFA! Ecco un mondo che, inventando delle nuove usanze, deve innovarsi verbalmente, e che, dovendo ugualmente attirare i profili migliori e i più rari (non si tratta più del modello taylorista nel quale nessuno è insostituibile), è portato a raccontare le proprie avventure imprenditoriali sul modello delle grandi narrazioni sacre, eroiche o mitologiche. Unicorno, evangelista, guru, angelo del business, ninja, rockstar, piccoli geni: tutto questo vocabolario della Silicon Valley ha lo scopo di creare un’attrazione irresistibile per dei giovani nerd che sono i talenti ricercati!
Concretamente, cosa cambiano queste pratiche nella vita di tutti i giorni in azienda?
Si potrebbe benissimo parlare di “trattamento corretto”, ovvero di “manipolazione”. Ma nessuno si lascia ingannare. Bisogna piuttosto vederlo come un invito a reinventare le identità narrative professionali e, per i primi implicati, a “giocare” il ruolo diversamente. E, se questo diventa una restrizione più che una libertà, ognuno ha le risorse e la creatività sufficiente per poter combattere una strategia di potere. Non bisogna prendere le persone per degli stupidi. Da qui l’importanza per la direzione di un’impresa di scegliere correttamente la metafora che conta di applicare all’interno, perché questa può rivelarsi esplosiva.
Se le persone non vengono prese per degli idioti, questa tendenza può essere positiva?
In generale, sono convinta che quest’effervescenza semantica sia positiva e liberatrice: proprio nel momento in cui si prova a inventare dei nuovi metodi per fare impresa e per lavorare, per mettere in piedi dell’inedito in senso proprio, restano soltanto da trovare delle nuove parole per raccontarlo! Si tratta di una “primavera della lingua aziendale”, se volete metterla così. È comunque più eccitante che un momento di stasi! “ I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, diceva il filosofo Ludwig Wittgenstein. Ampliarli significa esplorare delle nuove coste. Sarebbe inquietante se si vietassero dei termini senza crearne degli altri. Questo non è il caso attuale, esiste una creatività verbale che simboleggia una voglia positiva di qualcosa di nuovo...
Quali sono i limiti del potere delle parole?
Citerò il mio mantra per rispondervi: “Ogni idea che non si trasforma in una parola è un’idea persa. Ogni parola che non si trasforma in un’azione è una parola senza futuro”. Se alle parole non corrisponde nessuna realtà, si rientra nella favola, è là che le parole diventano dei dolori. E, a monte, se le parole non derivano da un’idea forte, sono delle chiacchiere. Le parole sono una cinghia di trasmissione tra le idee e le azioni, è questo il loro più grande potere. Nel contempo, il limite del loro potere in impresa è quando si dimentica che sono là soltanto per assicurare questa circolazione tra le idee e le azioni.

Fonte: lefigaro.fr, 26/09/2017

Traduzione: Francesca Corsetti, stagista presso l'OEP